Paola Bonora




L’anima del glicine

L’albero, disegnato o dipinto, è un elemento essenziale del nostro ambiente visivo e della nostra esperienza estetica perché, da sempre, l’arte ne ha interrogato il mistero. La sua presenza è una costante della pittura come componente essenziale del paesaggio, ma assume uno statuto autonomo di rappresentazione a partire dal XVI secolo, allorché l’immagine colta dal vivo diviene non di rado l’unica protagonista della scena pittorica. In questa lunga tradizione che, intersecando la stagione delle avanguardie novecentesche, si protrae sino alla contemporaneità, si inserisce il percorso di Elisabetta Marchettii. Protagonista assoluto è il glicine del suo giardino che l’artista osserva dalla finestra (metafora per eccellenza della pittura stessa), sedotta dall’andamento del tronco e dei rami resi spogli dal clima invernale.

Così facendo l’artista coglie la sfida di rappresentare in un linguaggio puramente grafico un motivo alquanto complesso, nell’intento di cogliere il dinamismo nervoso delle ramificazioni che, nella traslazione artistica, occupano l’intero riquadro, sino a quasi eccederne i contorni. La figurazione si crea, nella sua interezza, non solo attraverso i segni, ma anche attraverso gli interstizi che li separano, restituendo la capacità dell’albero di prendere il cielo nella sua trama. In sette delle otto vedute che, poste in successione, segnano l’itinerario, la pianta è, volta a volta, ripresa con spostamenti della prospettiva, mentre nell’ultimo pannello, numero otto – Souvenir,  l’artista propone un’immagine di sintesi, tracciata su di una superficie trasparente e sovrapposta alla ripresa fotografica, quasi un rispecchiamento volto a sottolineare, al contempo, una somiglianza e un’alterità. Grazie, infatti, a una sorta di ripulitura del dato sensibile, l’albero di Elisabetta si traduce in una trama che mette in scena l’atto stesso del dipingere designando il tema arboreo come il luogo di liberazione della forma. Emblematico il pannello numero tre che pone in dialogo due diverse riprese per mostrare come l’una trovi un prosieguo nell’altra quasi che il segno, alimentando sé stesso,  sia in grado di trovare il suo naturale approdo.

Ciò che, inoltre, rende singolare ogni ripresa è il ricorso a una pluralità sia dei procedimenti (incisione, stampa su tela, pastello, china, disegno, fotografia) sia dei supporti (canapa, cotone carta) i quali supporti, grazie alla loro specifica tessitura, conferiscono una diversa consistenza al tratto, inducendo chi osserva a cogliere nei dettagli lo svolgimento di un rapporto in fieri tra interprete e l’oggetto della sua indagine. Merita un accenno il pannello numero sette (china su velina incollata su canapa) dove la velina conferisce alla rappresentazione un sentore antico e dove l’inchiostro rosso anima, come sangue vivo fluente nelle vene, l’apparente immobilità del motivo arboreo. Come nei dipinti di Mondrian dedicati all’albero, anche qui il glicine si distende in uno spazio isolato da ogni contesto, ma mentre nell’olandese la composizione finale si dissolve sino alla scomparsa del soggetto, in Elisabetta essa mantiene un rilievo inesorabile.

Francesca Mellone